Continuous learning per anticipare i cambiamenti e far evolvere gli ecosistemi aziendali: il punto di vista del Dr. Marcello Mancini (Ceo e fondatore Performance Strategies).
Il 15 settembre del 2008, poco dopo l’una di notte, falliva Lehman Brothers.
Era la quarta banca d’affari degli Stati Uniti d’America e l’emblema di come l’avidità imprenditoriale e manageriale possa distruggere e far crollare l’economia di interi paesi.
Con ricadute sociali e perdita di quanto faticosamente costruito mattone dopo mattone con la propria attività (che sia imprenditoriale o professionale).
Mi piace riprendere la risposta che ha dato il Dr. Dario Gallina (Presidente Unione Industriale Torino) ad una delle domande di una mia intervista:
“Come ho già detto, per le Pmi è sempre più necessario evolversi verso modelli gestionali e proprietari più evoluti.
Non è più vero che piccolo è bello: le imprese devono crescere, come dimensione ma anche come capacità strategica.
Devono dotarsi di modelli gestionali più complessi, utilizzare meglio e di più il management esterno alla proprietà familiare, delegare anche funzioni direttive e strategiche, diversificare le fonti di finanziamento (oggi al 99% bancario), aprirsi a capitali esterni e molto altro ancora e questo significa inevitabilmente che la governance sarà più aperta e gli stakeholders avranno un peso maggiore”.
Per William Edwards Deming:
“La competizione porta alla sconfitta, persone che tirano la corda in due direzioni opposte si stancano e non arrivano da nessuna parte”.
La formazione continua rientra fra i fattori chiave per cavalcare i cambiamenti e colmare gap competitivi che si vengono a creare nell’organizzazione.
Al riguardo ho approfondito l’argomento con il Dr. Marcello Mancini (Ceo e fondatore Performance Strategies).
Dr. Marcello Mancini, quanto l’informazione è fondamentale se trasformata dalle persone in conoscenza e condivisa per orientare il cambiamento nelle organizzazioni?
In questi 10 anni ho incontrato migliaia di persone provenienti da ambiti completamenti diversi, le potrei catalogare in 3 tipologie:
– chi si forma costantemente, studia, fa corsi, ma poi non applica
– chi è sul pezzo 24h24, ma non si ferma per aggiornarsi e quindi continua a commettere gli stessi errore senza capire il perché
– chi è più saggio e va a prendersi esattamente la formazione di cui ha bisogno, scaricando a terra, con azioni mirate, quanto ha appreso e aumentando di conseguenza il roif, che è il return of investiment in formazione
Come mi piace ripetere sempre, “la formazione è utile solo se è influenza il pensiero e modifica il
comportamento”.
Quali sono le skills che maggiormente incidono sulla crescita del business?
Al di là delle competenze tecniche e specifiche del settore di riferimento, penso ci siano delle competenze trasversali che hanno, più di altre, un forte impatto sul successo di un’impresa, come per esempio la leadership ovvero la capacità di capire, guidare, ispirare le persone a dare il meglio di sé in un progetto professionale e nel lavoro di team.
Determinante è pure la capacità di ogni manager, imprenditore o libero professionista a comprendere le leggi del marketing, individuare il giusto posizionamento di mercato (e
quindi farsi scegliere dal proprio target) comunicando con un messaggio ben preciso, ma anche far
comprendere come attrarre e convertire prospect e lead in clienti e infine la negoziazione, un’arte da imparare a qualunque livello e nel contesto di qualunque professione si svolga.
Per sua esperienza quanto la formazione specifica su tematiche quali efficacia personale, leadership, marketing, negoziazione e vendita contribuiscono alla crescita delle persone che si occupano anche di acquisti?
In parte ho già risposto prima, ma certamente chi si occupa di acquisti ha le stesse difficoltà/opportunità di chi sta dall’altra parte: il venditore.
In uno studio condotto dal professor Stuart Diamond, premio Pulitzer e docente di negoziazione alla Wharton School of Business della University of Pennsylvania emerge che il successo in una negoziazione è dettato per l’8% dalla sostanza (sconto/prodotto/argomento da contendere), per il 35% dal processo negoziale (come decido di impostare il discorso e in che modo inserisco tutte le informazioni), per oltre il 50% dalle persone.
Quando ci sono in ballo grandi obiettivi subentrano le emozioni, che vanno sempre
gestite in modo opportuno, capite e rese parte funzionale della comunicazione negoziale.
In mercati sempre più liquidi (per citare Zygmunt Bauman) quanto la brandship personale è un
intangible value anche per le Aziende e quali strumenti necessita avere nella propria toolbox?
Direi che sia fondamentale possederne molti.
In una società liquida, come direbbe Bauman, tutte le identità dei consumatori sono meno definite del passato e le scelte in fatto di acquisti dipendenti da condizioni varie e multiformi, che vanno oltre le appartenenze a classi sociali o corporazioni come in passato.
Oggi la narrazione di un brand è, per certi aspetti, più importante del prodotto stesso. Deve richiamare i valori ed esprimere in modo onesto la visione che c’è dietro, perché i consumatori hanno maggior accesso alle informazioni, hanno a disposizione una vasta gamma di possibili scelte da compiere e quando decidono di acquistare lo fanno spinti da sentimenti molto precisi.
Ecco che allora vengono in nostro soccorso le neuroscienze, capaci di farci avere un approccio specifico alle reali esigenze del mercato di riferimento, che sono tante e molto diverse.
È chiaro che ogni caso presupporrebbe un’analisi dettagliata, ma in linea generale posso dire che nella toolbox di ogni imprenditore dovrebbero esserci oltre che la capacità di guidare un team (leadership), l’abilità a comunicare il proprio brand, che si articola in tanti modi differenti.
Anche nella vendita, che è diventata davvero una scienza e richiede molta più applicazione del passato.
Autore Dr. Alberto Claudio Tremolada (Socio e Resp. Sportello Fonderie e Metalli Adaci).
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